Il cibo e la tavola come opera d'arte
Saranno l'irriverenza, l'ironia, l'audacia, il paradosso, la creatività estrema, l'entusiasmo, l'umorismo, i presupposti determinanti, e di rottura, di tutti i movimenti d'avanguardia del Novecento, fattori ai quali lo stesso Futurismo non si sottrasse. Connotato principale era proprio il bisogno di épater, stupire e sconvolgere i ritmi sonnacchiosi di una borghesia passatista (e dei suoi simboli: opere d'arte, musei, ecc.), risvegliandola dal torpore in cui sembrava sprofondata, anche a rischio di esagerare nelle provocazioni, nelle sfide.
Ma era tutto previsto, anche il puntuale lancio di ortaggi e frutta sul palco che regolarmente condivano, è proprio il caso di dire, lo spettacolo concludendo in bellezza, e incredibile caciara, tutte le serate futuriste. Previste e cercate anche le scazzottate, i fischi, i duelli veri o presunti. Tutto rientrava nella logica e nella strategia futuriste: piegare il conformismo, abbellire la vita, renderla luminosa e veloce, dispiegare le forze del Nuovo e del Moderno per realizzare quel sogno creativo.
Nel 1932 Marinetti e Filìa pubblicano “La cena futurista”, lungo elenco di cibi e “polibibite” inventate e proposte dai futuristi. L’esperienza futurista non durerà a lungo, la crisi economica degli anni Trenta e le sanzioni indurranno all’autarchiche sarà portatrice di una cucina austera, piccolo borghese che si riconoscerà nei ricettari di Petronilla.
Menù Futurista
All’aperto in attesa degli amici, bocconcini “tra i due” , formula dell’aeropittore futurista Filìa
Accompagnati da freschi calici di Spumante
Con gran sbattere di coperchi, attori animati da spirito futurista leggono il poema “Bombardamento” di Marinetti. La cena viene servita su grandi tavoli ricoperti di carta argentata (in mancanza di alluminio).
Prima portata “antipasto intuitivo”, una grossa arancia a forma di cestino ripieno di salame, funghi sotto aceto, acciuga, peperoncino. All’interno bigliettini: “Vivere pericolosamente”, “Il Futurismo è un movimento antistorico”
Seconda portata “promontorio siciliano e mare d’Italia” e poi “aerovivanda”, formula del futurista Filìa, un piatto contenente olive, cuori di finocchio, un frutto candito.
Si mangia con la mano destra mentre la sinistra sfiora ripetutamente un rettangolo tattile, carta vetrata, velluto, seta, per soddisfare il tatto oltre al palato.
Sbattere di coperchi, silenzi tesi ad ascoltare brani della “Cucina futurista”.
Arriva il dessert “fragolamammella”, formula del futurista Farfa, un piatto rosa con due seni femminili erettili fatti di ricotta rosata con Campari e capezzoli di fragola candita.
Al tocco della campana pic-pac-pum-tumb e via tutti per le vacanze, con il ricordo di questa cena futurista portatrice di ottimismo non solo a tavola ma anche nella vita.
D'Annunzio invece era un esteta del cibo
Al Vittoriale è costodito il menu che il Vate ordinò per
ricevere alcuni amici. Storie e letteratura di piatti e sentimenti a firma
dello scrittore
"Assai poche dame potevan gareggiare con la marchesa
d'Ateleta nell'arte di dar pranzi. Ella metteva più cura nella preparazione di
una mensa che in un abbigliamento. La squisitezza del suo gusto appariva in
ogni cosa; ed ella era, in verità, l'arbitra delle eleganze conviviali. Le sue
fantasie e le sue raffinatezze si propagavano per tutte le tavole della nobiltà
quirite".
Ma questa invitante premessa che fa presagire di raffinatezze culinarie, di
piatti prelibati, di gustosi manicaretti, viene ben presto delusa nelle - ben -
dieci pagine nelle quali Gabriele d'Annunzio ne "Il
piacere" descrive -il pranzo aristocratico in casa della marchesa
d'Ateleta.L'attenzione si sposta alla cura maniacale con cui D'Annunzio descrive la tavola, i piatti d'argento e di cristallo, l'atmosfera elegante e sensuale che circonda il pranzo, le toilettes delle dame, le decorazioni, i fiori, i profumi. Resta misteriosa la composizione delle portate. E solo fugaci accenni al vino, "biondo ghiacciato come un miele liquido", e poi "al vin ghiacciato di Sciampagna", adoperato per sottolineare la provocante desiderabilita di Elena Muti. Nemmeno lo "splendidissimo" dessert, "vero lusso d'una mensa", sfugge a questa regola.
Questa delusione accompagna anche gli altri romanzi di Gabriele D'Annunzio, il quale era astemio e nel suo ascetismo maniacale preferiva pranzi frugali.
La vaghezza della descrizione del cibo, che si intreccia spesso a un velato erotismo, e come una strategia di rappresentazione da parte delle classi aristocratiche e borghesi, le quali privilegiano la forma, la funzione estetica, alla sostanza, al contenuto, che è invece sottolineata dalle classi inferiori e povere, dalla loro "necessità di nutrimento". Nel cibo, dunque, prevalgono erotismo, lusso, raffinatezza estetica. Gli stessi elementi che caratterizzarono durante la sua vita il Vate.
Chi visita il Vittoriale, l'immenso bric-a-brac in cui si ammassano oggetti d'ogni sorta, spesso kitch, non mancherà di notare il menu che "L'Immaginifico" ordinò alla "Sacra cucina" della sua villa sulle colline di Gardone Riviera, dove aveva invitato a colazione alcuni amici veneti.
Il menu è ben visibile nella sala intitolata alla pianista Luisella Baccara, amante di d'Annunzio dai giorni di Venezia a Fiume, e reca la data 18 marzo 1926.
Ecco le portate: "Pasta suta col toceto. La gelatina di Buccari.
Cotoletine vestite con carciofeti e patate novelle. Formaggio a scelta. Piri coti e pasta sfojata. Fruti in sorte. Caffè forte".
Per d'Annunzio, che tutto esaltava, anche la cucina era "sacra". E la cuoca, una donna veneta, Albina Becevello, era chiamata "Suora Albina" oppure "Suora Intingola". Alla cuoca d'Annunzio faceva avere quotidianamente veri proclami, vergati con la sua grafia svolazzante, nobilitando così una banale consuetudine quotidiana, anche per ordinarle solo una cena frugale: una fetta di vitello, un po' di prosciutto, delle uova al tegamino. In queste ordinazioni, d'Annunzio, ormai avanti negli anni, si mostra parco, come nelle sue antiche abitudini.
Ordina "un risotto magistrale, una frittata", oppure "ossobuco", "asparagi di monte senza olio". A volte si firmava il "poaro vecio", e pregava la cuoca di fargli mangiare cose semplice, frugali, "perché le altre cose sono troppo buone e mi tentano, e io debbo mangiar poco".
Ogni tanto aveva un sussulto, e allora preferiva le minestre, pernici, la cacciagione. Invocava "intigoli" e "squisitezze" in un risveglio di erotismo e sempre attento alle forme, alla raffinatezza, come se si saziasse dello spettacolo, non della sostanza.
Come i suoi personaggi, che nutrono più "l'appetito sentimentale" e non il piacere della gola.
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